Quando Sant’Alfonso veniva in Visita pastorale a Frasso (il mio paese natale), impiegava più di mezza giornata a percorrere i 14 km circa che dividono Sant’Agata dei Goti dal mio paese e che ora si percorrono in circa un quarto d’ora di macchina. Una volta cadde anche dall’asino.
Questo episodio dà la misura dei grandi cambiamenti (nelle comunicazioni come in altri ambiti, non ultimo la riduzione del numero dei preti) che motivano scelte pastorali come l’accorpamento delle Diocesi Italiane e le c.d. Unità pastorali (che rispondono alla stessa logica nella definizione delle realtà ecclesiali di base, cioè le parrocchie).
Il problema non è soltanto di geografia e di “compasso”. Si tratta infatti di progettare nuove strutture ecclesiali che garantiranno l’annuncio del Vangelo in territori precedentemente serviti da una diversa organizzazione ecclesiale, che ha formato cristiani ed ha creato senso di appartenenza alla Chiesa, riferimenti spirituali e solide tradizioni. In pratica, si è chiamati a progettare nuove chiese locali e nuove comunità ecclesiali di base (che non vivono solo di Sacramenti, ma -prima ancora -di evangelizzazione, comunione e servizio). E non bastano la buona volontà di questo o quel vescovo e di questo o quel sacerdote cui viene affidato il compito di condurre in porto l’operazione, come spesso è stato fatto finora con risultati non sempre positivi che hanno suscitato reazioni vivaci, indifferenza e raffreddamento dell’esperienza di fede. Talora gli accorpamenti (cui si dà il nome di “unità pastorali”) si sono ridotti ad affidare – senza nessun “meditato” e adeguato progetto – più comunità ad uno o due sacerdoti, costringendoli a muoversi come trottole per assicurare soltanto una sacramentalizzazione selvaggia e scadente, molto negativa per la trasmissione della fede e per la costruzione della Comunità.
Sono del parere che, prima di avventurarsi in tali operazioni, occorra programmare, responsabilizzare le comunità, indicare le tappe attraverso le quali raggiungere l’obiettivo “Unità pastorale”, domandarsi come assicurare i necessari servizi a tutto il territorio e non soltanto alla parrocchia più grande, chiedersi come salvare le tante tradizioni che innervano il tessuto delle nostre parrocchie e l’esperienza religiosa della nostra gente e garantiscono la trasmissione della fede, definire il ruolo del vescovo o del parroco (o moderatore) della nuova realtà e le responsabilità dei laici, che lo affianchino, ipotizzando nuovi ministeri, nuovi consigli pastorali, una diversa e coordinata programmazione liturgica, un capillare servizio della caritas, un coordinamento delle varie attività oratoriane e tradizionali, un’amministrazione più trasparente, non gestita dal Sacerdote, ma affidata al Consiglio degli Affari economici.
Senza tutto questo difficile lavorio si rischia di trasformare i necessari adeguamenti in calamità che fanno morire la fede in un territorio oppure in operazioni di facciata che creano realtà sulla carta, ma procedono come se nulla fosse successo, con notevoli disagi per la gente e il clero e perdita di credibilità per la Chiesa.
Bisogna innanzitutto scongiurare che si proceda per una logica di annessione del più piccolo al più grande, con la conseguenza di far morire tante piccole e vivaci realtà diocesane e parrocchiali e di non far confluire nella nuova realtà tutte le ricchezze delle strutture precedenti.
Questo richiede l’impegno di tutti: Vescovo, sacerdoti e soprattutto laici, il cui non coinvolgimento rischia di far inaridire il tessuto ecclesiale e di far andare perduta la ricchezza della fede ricevuta dalle precedenti generazioni e le peculiarità delle diverse comunità. Nella diocesi di cui sono stato vescovo (istituita nel 1986 da papa Giovani Paolo II, unendo le precedenti Circoscrizioni ecclesiastiche di Alife e di Caiazzo) il sottile iniziale boicottaggio della nuova realtà diocesana da parte di alcuni sacerdoti ha portato a far sì che nella nuova diocesi fossero confluite solo in piccola parte le tante ricchezze di una della circoscrizioni precedenti.
Vedo che è ormai avviato il processo di riduzioni delle diocesi italiane e che molti vescovi soprattutto a motivo della scarsità del clero parlano sempre più frequentemente di unità pastorali (che non sono una panacea, ma un progetto da realizzare). Non vedo invece una riflessione sul cammino e sulle scelte che devono condurre a realizzare nel modo migliore questi obiettivi. Il sinodo indetto da Papa Francesco potrebbe essere un’ottima occasione per riflettere su questi argomenti. Lo sarà o si risolverà tutto in un bla bla bla che al di là di affermazioni altisonanti, assisterà inerme all’impoverimento spirituale del popolo di Dio?
Fortunatamente sono in pensione, ma non vorrei che alla generazione dei vescovi, dei parroci e dei laici di oggi sia in futuro attribuita la colpa di aver assestato un nuovo duro colpo alla scristianizzazione dei nostri territori.
+ don Valentino
Commenti
Da lei non mi aspettavo” sono in pensione” pensavo ad un combattente
Mi scuso per la mia intolleranza
Alla fine chi paga di più questa situazione sono le zone interne
Che vengono abbonate per dare più visibilità verso le zone più popolose.