I miei genitori non si sono mai opposti alla mia scelta di essere prete, anzi l‘hanno accolta con fede e con serietà, anche se, a memoria d’uomo, nessuno dei miei antenati aveva abbracciato la vita religiosa o sacerdotale.
Ma domenica 7 agosto 1966, un fatto gravissimo venne a turbare la storia serena e gli equilibri della mia famiglia: in un incidente stradale in località “Cantinelle”, tra Dugenta e Valle di Maddaloni, morirono mio fratello Lino, mia zia Luisa, moglie del defunto mio zio Michele, con i due figli Mariaorsola e Valentino Dario, ed un’amica di mia cugina, Eugenia Cipelli, di Milano, che si trovava in vacanza a Frasso con loro. Erano stati a visitare la Reggia di Caserta e li aspettavamo per il pranzo. (Questa foto è bella. Ci siamo tutti. Era il 27 febbraio 1965, il giorno in cui ricevevo presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore la “tonsura”. In prima fila: ultima a sin. mia sorella Antonietta, ultima a destra mia sorella Anna; accanto a me a sinistra mia mamma, a destra don Callisto Lapalorcia. In seconda fila da sinistra mia sorella Rosa e dietro a me: a sinistra mio padre e a destra mio fratello Lino. Gli altri sono zii e cugini di Roma).
Questo tragico evento, oltre alla grande sofferenza e allo scompiglio in cui gettò tutta la famiglia, ma anche l’intero mio paese che partecipò in massa a questa tragedia e all’ insolito funerale con 5 bare di cui 4 bianche, celebrato da Mons. Ilario Roatta, vescovo di Sant’Agata dei Goti, lasciò dietro di sé una scia di problemi di ogni genere, che si trascinarono per moltissimi anni. In questo contesto di dolore e di disorientamento fu coinvolta anche la mia scelta di diventare prete, perché con la morte di mio fratello e di mio cugino, io rimanevo l’unico erede maschio della famiglia. Soprattutto per mio padre e mio nonno, due persone del Sud fortemente legate alla famiglia, questo particolare che metteva in discussione tanti progetti e tante speranze, li portò a guardare diversamente la mia scelta di diventare sacerdote e ad attivare pressioni, più sottili che esplicite, perché cambiassi strada. Non avevo ancora 23 anni e, benché fossi convinto della scelta fatta, essendo anch’io un giovane del Sud e volendo loro molto bene, percepivo che lasciando il Seminario li avrei fatti contenti e avrei lenito un po’ la loro sofferenza. Sentivo, inoltre, che mia mamma, benché non avesse lo stesso attaccamento alla prosecuzione della famiglia Di Cerbo, si sarebbe sentita confortata dal fatto che io rimanessi con loro, non tornando in Seminario.
Ma le pressioni non si limitavano alla mia famiglia. Tanti amici e conoscenti condividevano il desiderio dei miei e alcuni, con tutte le buone intenzioni, si sentirono impegnati nella missione di convincermi a cambiare strada. Ricordo una signora, Rosa, figlia di una anziana donna molto legata alla mia famiglia, che un giorno mi parlò e mi fece una “catechesi” “sulle gioie del mondo”, sulle ragazze, sulla bellezza del matrimonio e sulla convenienza di optare per una vita laica. La ascoltai perché ero convinto che lei mi parlasse col cuore, ma le risposi sorridendo che la mia scelta vocazionale non era dettata da mancanza di informazioni in proposito.
La prospettiva di lasciare il Seminario non mi rendeva sereno, anche perché la vocazione non è frutto delle scelte di una persona, ma risposta alla chiamata del Signore. E il desiderio di diventare sacerdote lo avevo percepito fin da bambino senza interruzione e senza tentennamenti. Tuttavia l’amore per i miei genitori, accresciuto dalla grande disgrazia occorsa alla mia famiglia e dal desiderio di non dispiacerli, mi poneva interrogativi seri sul mio futuro, suscitando in me sofferenza e tormento. Ne parlai con alcuni Sacerdoti che aiutarono molto il mio discernimento con i loro consigli e le loro preghiere. Un particolare aiuto mi venne dal mio Rettore di Seminario, Mons. Plinio Pascoli, che settimanalmente mi fece giungere una sua lettera (allora anche a casa mia non c’era il telefono) che senza fare alcuna pressione, mi rasserenava e mi incoraggiava a mettermi nelle mani del Signore.
Poi arrivò ottobre e, con l’inizio dell’anno scolastico, la mia famiglia tornò a Caserta (dove si era trasferita a motivo dello studio delle mie sorelle e del lavoro di mia madre, insegnante). Ogni mattina mi recavo a Messa nella Chiesa dei Salesiani. Fu lì che un giorno, sentendo più forte in me la sofferenza di capire quale fosse veramente la volontà del Signore e domandandomi se con il tragico evento dell’agosto precedente il Signore non avesse voluto dirmi qualcosa di nuovo circa la vocazione al Sacerdozio, gli chiesi un segno. Aprii a caso il Messalino che portavo con me e mi venne sotto gli occhi il brano del libro della Genesi, nel quale dopo l’episodio del sacrificio di Isacco, l’Angelo si rivolge ad Abramo dicendogli: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare … Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce” (Gen 22, 16-18).
Era una frase che, come avevo sentito più volte, aveva ispirato anche Don Bosco…
Rimasi stupito e ringraziai il Signore: dopo quei mesi di sofferenza, il Signore mi confermava la sua scelta di volermi prete. Non ebbi più dubbi e tornai in Seminario per iniziare il terzo anno di Teologia. Un anno e mezzo dopo, sono stato ordinato Sacerdote a Frasso, nella Chiesa della Madonna di Campanile, da S.E. Mons. Ilario Roatta, vescovo di sant’Agata dei Goti. Anche dalla serenità e dalla gioia dei miei genitori, in quella speciale circostanza, capii che il Sacerdozio, cui da piccolo mi sentivo chiamato, era la mia strada e che avevo fatto bene a rimanervi fedele. Quel brano della Scrittura che mi illuminò in quel momento difficile, mi venne in mente anche nel giorno della mia Ordinazione episcopale, quando mi sentii circondato dall’affetto di 6000 amici venuti nella Basilica di San Pietro da ogni dove. Mi viene ancora in mente ogni volta che persone che ho incontrato nel mio ministero, quando mi vedono anche dopo molto tempo, mi trattano come una persona di famiglia. Penso che sono i figli che il Signore mi ha donato.
+ don Valentino