Nelle mie frequenti visite alla Parrocchia di Santa Maria Maggiore in Piedimonte Matese, ero passato tante volte nel corridoio della sacrestia sotto quella lapide con un testo fitto e di difficile lettura, ma non mi ero mai fermato a leggerlo, anche se talora mi era presa la curiosità di sapere a quale evento si riferisse. Devo essere grato al prof. Armando Pepe di avermelo inviato su Whatsapp, dandomi la possibilità di leggerla con calma. Ho provato una grande delusione: si tratta della definizione di un’antica e lunga querelle tra i Canonici di Santa Maria Maggiore e quelli di Ave Gratia Plena, risalente al 1782, risolta con un documento della Corte di Napoli, trascritto sul marmo perché nessuno potesse più metterne in discussione la validità. Mi sono chiesto quante energie quella disputa aveva sottratto all’annuncio del Vangelo e alla cura pastorale e quanto scandalo aveva dato quel litigare tra preti.
Non è la prima volta, purtroppo, che mi imbatto in documenti del genere. Da giovane seminarista, durante le vacanze mi misi a curiosare nell’archivio della Parrocchia arcipretale di Santa Giuliana del mio paese, Frasso Telesino, imbattendomi in tre grossi faldoni (di cui non ricordo l’intestazione) relativi ad una lunghissima lite tra l’Arciprete di Frasso Telesino e il Parroco della nuova parrocchia della frazione di Nansignano. Oggetto del contendere era il diritto di quest’ultimo di indossare la stola quando, accompagnando i defunti al Cimitero, attraversava il territorio dell’Arcipretura. Il parroco di quest’ultima riteneva tale diritto illegittimo, sostenendo che il confratello gli cedesse la stola, segno della sua giurisdizione. La cosa mi incuriosì e lessi gran parte dell’incartamento, rimanendo scandalizzato della futilità della questione e del tempo perso.
Da giovane prete fui chiamato per quasi 10 anni a far parte delle Commissioni di ammissione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il numero notevole di raccomandazioni/presentazioni di uomini politici e soprattutto di Vescovi e Cardinali che arricchivano il fascicolo di ogni candidato (anche di quelli poco preparati e poco…credenti) un giorno fece esclamare al Presidente della mia Commissione: “Ah! se la Chiesa fosse più docente e meno raccomandante!”.
Purtroppo, nella mia vita di credente e di prete, mi sono imbattuto talora in chierici e laici che spendevano tempo ed energie enormi per curare hobbies, rivendicare “diritti”, affermare vanità personali, farsi notare dai Superiori, raggiungere obiettivi di carriera, ottenere vantaggi economici, titoli onorifici o posizioni ecclesiastiche di prestigio. Anche nel mio ministero di vescovo ho dovuto con dolore (!) spesso constatare la consistenza di taluni carteggi con cui qualche sacerdote, ricorrendo talora a Roma, difendeva piccoli puntigli e rivendicava inutili privilegi che facevano macroscopicamente a pugni con la logica del Regno di Dio e con l’amore per Lui sopra ogni cosa che chiede Gesù ai suoi discepoli. Sono logiche comuni in tutti gli ambienti, si dirà, ma si dà il caso che quando si imbarca in tale logica un prete o un credente, è tutto tempo sottratto all’annuncio del Vangelo e alla costruzione della Umanità nuova, obiettivo della Missione del Figlio di Dio e della Chiesa.
Durante il Giubileo del 2000, Papa Giovanni Paolo II, con un gesto memorabile e sorprendente, chiese perdono dei peccati della Chiesa. Non ricordo se tra i peccati ci fosse quello del tempo sottratto al dovere di annunciare il Vangelo di una Chiesa che da “maestra di umanità” in tante circostanze è diventata “raccomandante” (e non solo), tradendo la sua missione.
I Superiori di Seminario e l’esempio di buoni preti da me conosciuti mi hanno educato alla mentalità che il prete è sempre in servizio. Di loro ricordo spesso le stringenti espressioni paoline come “Guai a me se non annunciassi il Vangelo!” (1Cor 9,16) e il racconto di storie terribili di sacerdoti tormentati per tutta la vita da sensi di colpa perché, colti dal sonno, non erano stati pronti ad amministrare i Sacramenti a qualche moribondo. Tant’è che quando andai negli USA nel 1970 come viceparroco estivo in una parrocchia italo-americana, rimasi colpito dal fatto che i Confratelli americani, puntualissimi quando erano in servizio, da buoni lavoratori, si sentivano liberi da ogni cura pastorale quando erano in ferie o “fuori orario”. Pensavo tra me e me che questa mentalità svuota di passione e di zelo la vita del prete, riducendo ad un onesto funzionario uno che annuncia il Vangelo non per contratto e nel rispetto di un capitolato, ma sempre, perché la sua è una vita tutta donata al Signore.
Leggendo la storia delle nostre comunità e dei nostri preti, si rimane sorpresi del tempo sottratto all’annuncio del Vangelo e delle enormi energie impegnate in questioni futili e lontane dalla logica del Regno. Sento analisi lucide sulla secolarizzazione e sulla scristianizzazione dei nostri antichi contesti cristiani, le ritengo molto interessanti, ma poi pensando che Gesù affida a noi la sua missione, chiedo perdono del tempo che come singoli e Chiesa abbiamo sottratto o stiamo sottraendo all’annuncio del Vangelo, rendendolo sconosciuto e insignificante per i nostri contemporanei.
+ don Valentino