Quando, in occasione della recente Solennità diocesana del Corpus Domini, ho collegato l’Eucaristia con il dovere di pagare le tasse, di non assumere in nero… o quando, in diverse occasioni, ho affermato la necessità del Consultorio familiare diocesano per sostenere il dolore di tanti/e, anche nei nostri paesi “tranquilli”, schiacciati dalle mille violenze familiari, qualcuno probabilmente ha pensato ad un’invasione di campo.
A leggere il Vangelo da uomini e non da bigotti, ci si rende conto, invece, che ho affermato cose di cui – come credente – non potevo tacere.
Il nostro modo di vivere la fede appare spesso sganciato dalla vita: cristiani in Chiesa e persone che “fuori” vivono senza distinguersi da chi non crede, talora non rispettando neppure le comuni norme etiche. Sembra che i risvolti sociali della fede professata siano un di più, un qualcosa che potrebbe anche non esserci. Non una conseguenza logica dell’essere cristiano, ma la scelta di anime belle (e un po’ sprovvedute e ingenue).
Tutto questo forse dipende dal fatto che – nelle nostre chiese – si è molto insistito sulla dimensione liturgica e su una fede individualistica che ci porta ad essere “buoni”, per evitare le punizioni divine e meritare il Paradiso, senza nessuna considerazione dei doveri verso la sorte (terrena) degli altri.
Dobbiamo domandarci: ma Gesù ci ha insegnato questo? Cosa chiede ai suoi discepoli? Che siano devoti praticanti, che piangono bene in una “valle di lacrime” creata anche dai loro egoismi che continuano a schiacciare la parte debole della società?
Poche volte ricordiamo che al centro della predicazione e delle scelte di Gesù di Nazareth, c’è l’annuncio del Regno di Dio, cioè il progetto e la volontà di Dio di rendere gli uomini (svuotati di umanità dal peccato) più uomini, più uguali, più fratelli, più accoglienti verso le differenze/qualità di ognuno, meno in competizione tra loro e più capaci di farsi carico l’uno dell’altro, soprattutto di chi è più svantaggiato.
In una logica di fede autentica, la preghiera e l’ascolto della Parola di Dio (comprese processioni, devozioni e sacramenti) non sono separati da questo progetto, ma funzionali ad esso.
Il cristiano ascolta Gesù di Nazareth, frequenta la Chiesa, venera i santi…per capire come si diventa uomo e prega per chiedere il dono dello Spirito perché, anche attraverso la propria conversione e il proprio impegno per gli altri, il Regno di Dio possa giungere, a partire da questa Terra. I cristiani poi sono chiamati a realizzare la volontà di Dio e il progetto di umanità nuova insieme, perché la loro vita fraterna ne testimoni la possibilità e ne sia una prima realizzazione.
In questa prospettiva ci domandiamo: cosa devono essere le nostre parrocchie? Luoghi di culto, dove si vanno a presentare a Dio richieste di privilegi, di successi personali, di soluzione di problemi propri, a prescindere dalla sorte degli altri; a istruirsi su concetti dottrinali e morali da osservare per andare in Paradiso ed evitare castighi e guai…? Oppure luoghi dove, a partire dall’Eucarestia, si impara a “dare sé stessi da mangiare” ai propri simili e a vivere nello lo stile di vita di Gesù di Nazareth, per iniziare a trasformare il mondo nel senso del progetto di Dio e moltiplicare occasioni di vita per tutti? Nella logica di Gesù, il cristiano non è un devoto che si garantisce la protezione divina, ma uno che impara da Lui a trasformare il mondo, a rendere la storia più umana nella famiglia, nella politica, nell’economia, nella cultura, nel diritto e nelle mille occasioni di cui è composta la vita…
Da Clarus, Giugno n.6-2013