“Questo mi fa venire la voglia di diventare prete!” ha commentato qualcuno dopo l’ultima puntata di Don Matteo, vista da 7,4 milioni di telespettatori con uno share del 26,5%. I dati positivi e l’interesse che suscita da sempre questo programma televisivo, dipendono certamente dalla trama e dalla bravura degli attori. Ma è pur vero che la figura dominante della storia è un prete che dopo 12 edizioni provoca ancora la simpatia di una larghissima fascia di telespettatori italiani.
Non poco, in un tempo di crisi vocazionale e di appannamento della missione sacerdotale nella società. Eppure colpisce che il prete in oggetto è un personaggio tradizionale, che indossa la talare e obbedisce al Vescovo. Soprattutto risponde ad una caratteristica peculiare del prete italiano: quella di stare tra la gente, sempre, di essere di casa, che paradossalmente dà alla sua figura un alone di modernità e di gradevolezza.
Altre caratteristiche che lo rendono vicino sono la sua povertà; la fedeltà autentica, ma non bigotta al celibato; la capacità di accoglienza verso persone in difficoltà; la sua qualità di annunciare il Vangelo non con dovizia di parole e di dottrine o con trovate spettacolari, ma discretamente, al momento giusto, con espressioni che parlano al cuore, perché nascono dal cuore, dal proprio vissuto.
Parole che non stupiscono, ma fanno pensare e danno speranza.
La cosa bella, presente in tutte le puntate, ma che viene rivelata alla fine dell’ultima serie è che lui sceglie la sua gente, sempre, anche di fronte a proposte lusinghiere. Mi sono domandato: il successo di don Matteo nasce dalla nostalgia della gente per un certo tipo di prete, per certe caratteristiche non più così evidenti?
Mi sono interrogato a lungo su queste considerazioni, soprattutto in un tempo in cui il problema della carenza di vocazioni si fa drammatico, specialmente nei paesi di antica cristianizzazione. Le soluzioni proposte appaiono sempre più deboli, rischiose e presumibilmente inefficaci, e si moltiplicano fino all’inverosimile Convegni di pastorale vocazionale, organizzati spesso da sacerdoti “esperti”, la cui vita forse non ha fatto venire a nessuno la voglia di farsi prete. Si sa, la vocazione sacerdotale è un mistero e un dono divino, ma è anche vero che solitamente si rivela nel confronto con modelli già realizzati, com’è avvenuto a tutti quelli che hanno scelto di diventare preti. Ma allora, il gap dov’è?
Facendo il confronto tra preti di ieri e di oggi da me conosciuti, ho l’impressione che negli ultimi tempi ci sia stata una “funzionarizzazione” del ministero sacerdotale, che, insieme a una lettura troppo negativa della “modernità” e a certa riproposta del rigore morale e dell’ortodossia dottrinale, ha snaturato la figura del prete. Cioè, questi, in molti casi è visto dalla gente come un custode di regole rigide e di dottrine astratte e un “prestatore di servizi religiosi”, più che come un uomo di Dio e un padre spirituale accogliente.
La cosa più preoccupante è che anche molti preti sono entrati in questo ruolo. Questo nuovo modo di concepire il proprio ministero li porta a vivere poco nel territorio parrocchiale, a non abitare in canonica (che per un prete è segno di maturità e di povertà), ad essere impegnati in altre mansioni di curia o addirittura civili, che li portano spesso lontano dalla propria gente, talora a conseguire titoli di studio per crescere in cultura e prestigio, ad accettare impegni fuori parrocchia… Cioè, sempre più spesso l’essere parroco appare a tanti come un “secondo lavoro”, che crea il modello del prete “sempre impegnato” e poco disponibile per i fedeli, anche se in tanti casi il suo servizio alla gente si riduce alla celebrazione della Messa quotidiana.
Questo modello lo porta ad “aspettare la gente” e non ad “andare verso la gente”. Dinamica che in parte avviene anche perché le condizioni e lo stile di vita delle persone sono cambiati e certe forme di pastorale appaiono superate.
Tuttavia, di fronte a tale situazione il prete, che abbandona forme di devozione e di pastorale tradizionali in nome di un cristianesimo più moderno (ma sarà vero? Talora certe forme di iconoclastia pastorale non sembra nascano da zelo, ma da pigrizia), non appare sempre preoccupato di trovare nuovi modi per andare verso la gente, ma si ferma ad aspettarla quando viene a chiedere servizi e quindi ad avere poco da fare. Penso che si riferisca a questa situazione Papa Francesco quando esorta ad una “Chiesa in uscita”.
Tutta questa problematica fa sì che il prete smarrisca sempre di più il senso della sua utilità in un mondo secolarizzato in cui la Chiesa ha perso spazi da occupare e potere.
Purtroppo ho l’impressione che certe soluzioni “avveniristiche” di “unità pastorali” nascano spesso da questa insignificanza e riduzione del ministero sacerdotale, oltre che dalla mancanza di sacerdoti.
Durante il mio ministero episcopale dovetti trasferire un giovane parroco che si lamentava della poca partecipazione della gente alla vita della parrocchia e soprattutto ai Sacramenti e quindi della inutilità della propria presenza in loco. Non avendo altre possibilità, lo sostituii con un sacerdote ottantenne che aveva lasciato la parrocchia per raggiunti limiti di età… Dopo un po’, vidi che quella parrocchia era rifiorita e che il “nuovo” parroco era impegnatissimo e richiesto dalla gente: stava al chiodo, era sempre disponibile, svolgeva diligentemente la sua missione, era sempre presente, visitava gli ammalati, lo si vedeva pregare in Chiesa…
In questa situazione, mi sembra stia nascendo un modello di prete meno “funzionario” e più missionario: quello dei Movimenti. Non mi si può accusare di essere un loro ammiratore fanatico, anzi! E vedo anche nello stile dei sacerdoti dei movimenti una eccessiva riduzione del termine “comunità” alla loro realtà, e un senso debole e formale di appartenenza alla Diocesi e del ruolo del Vescovo, come pure uno scarso apprezzamento della “diocesanità”. Né ritengo, come una volta sentii sostenere dal carissimo Card. Ugo Poletti, che ai preti delle Parrocchie è affidato il compito della conservazione della pratica religiosa e a quelli dei Movimenti l’evangelizzazione. Sono convinto che una Parrocchia così non abbia motivo di esistere e penso che proprio a partire dalla Evangelizzazione e dalla costruzione della Comunione, questa benemerita struttura pastorale abbia ancora senso. Tuttavia, rimasi perplesso di fronte all’atteggiamento di un mio prete diocesano che vedeva come una grande conquista il fatto che in diocesi non ci fossero Movimenti, soprattutto perché ebbi l’impressione che le sue motivazioni nascessero dalla difesa di un certo potere clericale e dalla voglia di evitare “la concorrenza” che lo avrebbe costretto a confrontarsi sul territorio con esperienze nuove di fede e forse a mettere in discussione e a rinnovare il proprio modo di gestire e animare la parrocchia.
Pur conoscendo i limiti di certe esperienze ecclesiali e credendo nel valore della parrocchia (un prete dei Movimenti disse una volta di me che ero “fissato per la Parrocchia”), ritengo che proprio nei Movimenti e nei sacerdoti che vi fanno parte siano presenti delle caratteristiche che mancano a molti nostri diocesani: la missionarietà, il senso della comunità, la comunione fraterna, l’attenzione alle povertà e ai cambiamenti presenti nella società, la rivalutazione del ruolo dei laici…
Penso che proprio a questo sia dovuto il fatto che moltissimi giovani che oggi entrano in Seminario provengano da un’esperienza movimentista, mentre si va assottigliando il numero, prima assolutamente prevalente, di giovani provenienti da comuni esperienze parrocchiali. Da cosa dipende ciò? Qualcuno fa notare che la scelta dei primi sia più emozionale e quella dei secondi più matura e motivata; oppure che i preti provenienti dai movimenti hanno una visione più parziale della Chiesa legata alla loro esperienza e gli altri una visione più globale ed “ecumenica”…
Motivazioni che hanno il loro interesse e il loro valore…
Ritengo comunque che una mentalità più inclusiva, una ecclesiologia più fedele al Magistero conciliare, una maggiore attenzione ai mutamenti culturali ed un motivato ripensamento delle strutture ecclesiali, anche se impongono impegno e fatica, possano giovare non poco all’annuncio del Vangelo nel nostro tempo e alla presenza di una Chiesa viva e appassionata di Cristo, capace di offrire qualità alla convivenza sociale e di promuovere la dignità della vita umana.
Don Matteo docet…
Commenti
Non c’è medico che non raccomandi ad un suo paziente: mi raccomando, beva almeno due litri di acqua al giorno………….
Personalmente non bevo molto, ma con il passare degli anni mi accorgo di cercare nuove fonti dalle quali bere………..
Ecco, questa è una di quelle!!!!