Sono nato in un ambiente provinciale, dove – soprattutto in passato – appartenere al Clero costituiva un privilegio sociale, culturale e anche economico. Ma, esercitando il ministero sacerdotale a Roma, ho imparato che il dono del presbiterato non inserisce in un gruppo di privilegiati, cui nella Chiesa tutto è dovuto e che dal momento dell’Ordinazione diventano quasi i padroni del Popolo di Dio, ma chiama a servire, in analogia con quanto ricorda San Paolo nella Lettera ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,5-11), in cui tutta la vicenda dell’Incarnazione del Verbo è letta nella logica del rifiuto del privilegio.
Sono rimasto quindi piuttosto perplesso quando, diventato vescovo e tornando nelle mie zone, ho notato tra diversi preti una mentalità padronale nei confronti dei laici e una considerazione del proprio ministero come privilegio incontestabile nelle Parrocchie e nell’ambito diocesano. Tale mentalità spesso generava nei preti un atteggiamento di fastidiosa superiorità e di pretesa di obbedienza soprattutto nei confronti dei laici impiegati in Curia e di quelli che in qualche modo dipendevano dalla Diocesi come gli Insegnanti di Religione, che alcuni preti sembravano considerare come membri del Popolo di Dio senza diritti, ricattabili e obbligati solo ad obbedire.
Ricordo l’arroganza con cui un prete pretendeva l’uso di una sala della Curia, oggettivamente non disponibile, da un impiegato laico, come farebbe un padrone con uno schiavo (risentito che il suo interlocutore non gli obbedisse “perinde ac cadaver” facendo l’impossibile), e le rimostranze di un giovane prete che in una importante Commissione tecnica diocesana, che doveva rivedere la forma del Testo del Libro del Sinodo, aveva visti inseriti (dal Vescovo) due laici e non lui “che era prete”. O la stizza di un giovane sacerdote che di fronte ad alcune proposte sensate del presidente dell’Azione Cattolica diocesana, pretendeva che prevalessero le sue solamente “perché io sono prete!”. Che questo atteggiamento sia comune anche a sacerdoti giovani è molto preoccupante e rivela tutto il male che il Clericalismo continua a fare alla Chiesa, esaltando nei preti la logica del privilegio rispetto a quella del servizio. Questo provoca talora lo strano e infantile comportamento di alcuni preti che vanno a denunciare ai propri Vescovi i laici che si comportano da persone ragionevoli e non da schiavi, trovando a volte (ahimé!) una sponda amica. Eppure in tutta la mia vita sacerdotale ed episcopale ho potuto rendermi conto di quale ricchezza siano i laici per la vita della Chiesa e di quale libertà, entusiasmo e competenza siano capaci quando vengono coinvolti nell’annuncio del Vangelo e nelle strutture di governo della Chiesa.
Di fronte alla logica asfittica del privilegio presente in alcuni preti, appare come una grande boccata di ossigeno l’affermazione che Papa Francesco fa nel n. 10 della Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium resa nota il 19 marzo: “Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa. Essi «sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo». Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo-missionario «nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù». Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità. La loro presenza e partecipazione è, inoltre, imprescindibile, perché essi cooperano al bene di tutta la Chiesa e, per la loro vita familiare, per la loro conoscenza delle realtà sociali e per la loro fede che li porta a scoprire i cammini di Dio nel mondo, possono apportare validi contributi, soprattutto quando si tratta della promozione della famiglia e del rispetto dei valori della vita e del creato, del Vangelo come fermento delle realtà temporali e del discernimento dei segni dei tempi”.
Tali affermazioni circa la responsabilità di tutti i cristiani nei confronti della Evangelizzazzione e soprattutto il conseguente coinvolgimento di laici e laiche “anche in ruoli di governo e di responsabilità”, anche se ad alcuni appaiono quanto mai sorprendenti, sono perfettamente in linea con il dettato del Concilio Ecumenico Vaticano II, conclusosi più di mezzo secolo fa.
Spero che tali coraggiose scelte di Papa Francesco abbiano un risvolto pratico anche nella vita delle realtà ecclesiali di base delle nostre zone, dove la mala pianta del clericalismo è ancora florida, dove la figura del prete/privilegiato/duce è ancora vigente, dove stentano a decollare strutture di partecipazione come i Consigli pastorali e i Consigli degli affari economici e dove le scarse occasioni di inserire i laici nelle strutture di governo della Chiesa da molti preti sono solo tollerate e mal sopportate.
Auspico che le decisioni coraggiose di Papa Francesco illuminino le menti di tanti preti e Vescovi che, a parole e in ogni circostanza proclamano fedeltà al Magistero petrino, ma di fatto vivono il loro ministero come se il Concilio non fosse stato celebrato e mostrano ingiustificata ritrosia nell’affidare ai laici posti di responsabilità nelle loro Curie, quasi affermando con il loro atteggiamento compiacente al clericalismo dei preti che quelle nomine non hanno lo stesso rilievo di quelle dei presbiteri.
+ don Valentino