(L’acqua si disperde e i cani soffrono la sete)
Mi viene spesso in mente questo proverbio, quando penso alla vita di certi preti poco zelanti che, chiamati a recare il Vangelo ai fratelli, non si donano con passione alla missione che il Signore ha loro affidata, limitandosi a gestire la parrocchia come un’ASL del sacro, cioè a fornire servizi religiosi, che spesso la gente non capisce più. Interrogandomi sui motivi di questo spreco della grazia di Dio, sono andato con la mente alla storia della Diocesi in cui sono nato.
Quando Sant’Alfonso divenne vescovo di Sant’Agata dei Goti, in quella piccola diocesi con meno di 40.000 abitanti, c’erano più di 400 preti. Uno ogni 100 abitanti! Mi sono sempre domandato cosa facessero e come vivessero. In molte diocesi italiane, soprattutto del Nord, all’abbondanza di preti corrispondeva il fiorire di Congregazioni religiose e, più tardi, missionarie. Al Sud questa svolta si è avuta in percentuali molto minori. Occorre premettere che moltissimi preti erano ordinati ad titulum patrimonii sui, cioè se provvisti di una dote che permettesse loro di provvedere alle proprie necessità, senza pesare sulla Diocesi. Così molti vivevano in famiglia, senza incarichi pastorali, contribuendo spesso al benessere dei propri parenti. A questo si riferisce il proverbio: Viat’a chella casa addò chierica ce trase (“Beata quella casa dove è presente una chierica”, termine col quale si indicava un dischetto rotondo rasato che fino a qualche decennio fa ornava la nuca dei sacerdoti). Ma mi rimane la curiosità di cosa facesse tutto il giorno una massa così consistente di preti, che in un piccolo paese come il mio, Frasso Telesino (nella metà del 1700 con neppure 2000 abitanti) raggiungeva le 30/40 unità.
Facendo delle ricerche e sentendo i racconti di alcuni anziani (che si riferivano però ad un tempo successivo) ho saputo che c’erano delle esigue minoranze che dedicavano la loro vita allo studio della teologia o delle lettere classiche (di loro si diceva in giro che se un incendio avesse bruciato tutti i vocabolari del mondo, sarebbero stati in grado di ricomporli, a memoria) ma anche all’insegnamento privato, o che aiutavano nella conduzione delle attività di famiglia. Diffusi, erano tra i preti, la caccia e il gioco della carte (mettendo in palio grosse somme e anche qualche proprietà).
Tra l’Unità d’Italia e il Concordato del 1929, molti sacerdoti si dettero alla politica diventando Consiglieri comunali. Pochi si dedicavano alla cura delle anime o ad altre attività connesse con la vita pastorale: solo qualcuno faceva il parroco o il viceparroco, cui era demandata anche la cura dei registri parrocchiali e la cronaca della vita ecclesiale. Uno di questi, don Pietro Fusco, particolarmente esperto e volenteroso, fu poi trasferito a Sant’Agata, dove, con grande pazienza e perizia, ricopiò tutti gli Atti vescovili più recenti raccogliendoli in 28 volumi, detti i “Miscellanei nuovi”. Molti preti erano Canonici della Collegiata del Corpo di Cristo e tutti partecipavano, con prebenda, ai funerali e celebravano Messa quotidianamente negli altari laterali delle Chiese, di cui alcuni erano titolari per incarico della famiglie che ne avevano il patronato.
Ho l’impressione che questo modello di prete poco impegnato, vigente per secoli in molte diocesi del Sud, ancora serpeggi come un virus nell’inconscio di qualche prete di oggi, prevalentemente dedito alla gestione dei riti sacramentali (anche se talora con un pizzico di creatività effimera), alle esequie e alle devozioni popolari, e poco abituato ad “osare nella pastorale” come diceva Papa Paolo VI o a operare la “conversione pastorale” auspicata da Papa Francesco. Tale tipo di prete solitamente non apprezza un vescovo che lo spinge verso una pastorale più impegnata e pensata e plaude al pastore che pur promuovendo iniziative altisonanti e interventi all’avanguardia, di fatto lascia lui e i confratelli “tranquilli”.
Divenuto Vescovo di Alife-Caiazzo, dei 7 preti ordinati dal mio Predecessore, due avevano lasciato il Sacerdozio, uno era tutto preso dai suoi rapporti amicali con la Curia romana, di cui conosceva più Cardinali e Vescovi di me che ero vissuto nella città eterna per più di 50 anni, un altro mi chiese subito se potevo trovargli un posto in Vaticano. Capii anche che gli altri tre, brave persone, difficilmente avrebbero dato un forte contributo a quel rinnovamento della pastorale diocesana che mi aveva raccomandato il mio Predecessore. Ovviamente la Diocesi era poco apprezzata in giro.
Negli anni del mio ministero ho cercato di lavorare molto per alimentare il senso di appartenenza alla Chiesa locale e per rinnovare la prassi pastorale corrente, ancora lontana dal rinnovamento auspicato dal Concilio e sollecitato dalla CEI (in cattedrale, a più di mezzo secolo dal Concilio Vaticano II, non era stato fatto ancora l’adeguamento liturgico e si continuava a celebrare su un modestissimo altare di legno). In questo ho scoperto che i laici sono una grande risorsa, come lo sono stati nel Sinodo diocesano e nel rinnovamento della iniziazione cristiana. Ma su questo slancio rinnovatore ha pesato l’ipoteca del clericalismo di molti sacerdoti, concentrati sul loro potere, poco disponibili a valorizzare i laici e a lavorare con il vescovo per migliorare l’evangelizzazione del territorio. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, in parte ataviche, si è riusciti in 5 anni (2013-2018) a fare una lunga visita pastorale e a celebrare un sinodo che, evento raro in Campania, ha ripensato e ringiovanito una prassi pastorale ordinaria da molto tempo inadeguata alla situazione culturale e alle trasformazioni del territorio.
Cessato il tempo del mio ministero, ho molto apprezzato che il mio Successore riproponesse il Libro del Sinodo come guida pastorale, anche perché voluto ed approvato a larga maggioranza dalle assemblee sinodali, e in sintonia con Papa Francesco che ripropone alla Chiesa italiana un Sinodo nazionale per rinnovare la pastorale e, vincendo la mortifera malattia del clericalismo, per recuperare il laicato, tenuto ancora molto ai margini della vita ecclesiale.
Scopro con tenerezza che proprio alcuni sacerdoti che potrebbero menar vanto di quanto nella loro diocesi è stato fatto e in altre no, davanti al nuovo vescovo prendono le distanze da questa importante e bella esperienza vissuta. Per fare cosa? Non si sa. Spero non per ritornare ad una pastorale stantia, fatta di funerali, Messe per i morti e sacramentalizzazione selvaggia e ad un modello di prete, simile a quello dei secoli passati, tutto preso dai propri hobbies (quelli sì, aggiornati!), mentre viene disatteso e accantonato quell’annuncio necessario del Vangelo, che è posto nelle loro mani, perché possa essere donato con cura, passione e intelligenza agli uomini ed alle donne del nostro tempo e portare a nuovi traguardi di umanesimo e di civiltà.
+ don Valentino