Sono nato in un paesino del Sud, Frasso Telesino, dove sono stato educato ad un forte senso della Famiglia.
Conosco storie bellissime di genitori che hanno fatto sacrifici enormi per i figli, senza pretendere alcun riconoscimento, se non quello di vedere il progresso che essi hanno fatto grazie alle loro fatiche. Si tratta di persone grandi e schive che hanno pensato solo agli altri e mai a sé.
Ricordo con orgoglio la faccia di mio padre quando qualcuno gli disse che voleva proporlo per il titolo di cavaliere (declinando l’invito), ma anche il suo comportamento esigente nei confronti di noi figli e soprattutto la lucentezza dei suoi occhi di fronte ai nostri successi: quelli erano i titoli che gli interessavano.
Sono stato chiamato dal Signore al Sacerdozio e non ho una mia famiglia, ma ho vissuto molto intensamente il rapporto con la mia famiglia di elezione, la Diocesi. Sono molto grato al Cardinale Ugo Poletti che ci ha educato a sentire la Diocesi di Roma come la nostra famiglia, ad impegnarci per la sua crescita e ad essere orgogliosi dei suoi successi. Ricordo che quando, partecipando ad incontri extra diocesani, sentivamo parlar bene della nostra chiesa ed apprezzare i successi raggiunti nei diversi ambiti pastorali, provavamo una sensazione bellissima.
Educato a questa esaltante esperienza di “gioco di squadra”, sono rimasto sempre scandalizzato nel sentire preti che parlano male della propria diocesi o godono nell’evidenziarne i limiti, prendendo le distanze dalla sua vita per esaltare se stessi e le loro piccole iniziative individuali. Preti pronti a denigrare le ricchezze della loro famiglia diocesana, soprattutto se non ne sono riconosciuti protagonisti. O innamorati della loro immagine senza preoccuparsi della crescita di tutta la loro Chiesa e in particolare di confratelli, forse più timidi o più lenti, cui spesso si contrappongono o procurano umiliazioni. O quelli che, come certi cittadini italiani, sono sempre pronti a lodare ciò che avviene nell’orto del vicino e a disprezzare o ignorare quanto cresce nell’orto proprio. Ricordo un sacerdote della mia Diocesi di Alife-Caiazzo, sempre pronto a riferirmi le cose belle che realizzavano i vescovi di altre diocesi e muto o infastidito di fronte a realizzazioni anche migliori che avvenivano nella nostra.
Amare la propria diocesi significa, come nel caso di quegli ammirevoli genitori del mio paese, lavorare per il Noi e non per l’io, fare “gioco di squadra” e non “ballare da soli” e, avendo qualche idea pastorale felice, preoccuparsi di donarla agli altri prima di realizzarla in proprio, per dimostrare – con meschinità infinita e poco spirito evangelico – che si è il primo della classe, e che gli altri non valgono nulla.
La grandezza di un prete invece sta nel far crescere gli altri e dar loro sempre nuove motivazioni per servire il Regno di Dio. Nella mia lunga vita di prete, ho dovuto constatare che purtroppo la scarsa qualità di alcuni presbiteri dipende quasi sempre dalla presenza di questi soggetti in cerca di glorie personali. Nel mio ministero episcopale ho conosciuto, invece, tanti preti e laici che hanno lavorato e lavorano con grande sacrificio e passione per la diocesi che ho guidato: persone silenziose che hanno impegnato tempo, fatica e talvolta denaro per la sola soddisfazione di veder funzionare bene qualche settore diocesano e sentire che il lavoro che svolge la propria Chiesa è apprezzato a livello extradiocesano o di CEI.
Durante la celebrazione del Sinodo, ho visto anche la fatica di tanti per fare dell’evento un momento di grande partecipazione (com’è stato) e l’atteggiamento di altri, soprattutto preti (peraltro poco attivi nelle assemblee sinodali), preoccupati solo dei titoli e dei ruoli da esibire, lasciando le cose a metà quando si trattava di concludere e di lavorare nell’ombra perché il risultato finale fosse di qualità.
Penso che adesso dicano che il Sinodo è stato imposto dal Vescovo, ma spero anche che sentano il bisogno di confessarsi di questa grave bugia.
È importante che vescovi, preti e laici amino la diocesi, lavorando per la sua crescita e non per la propria gloria. In quest’ultimo caso si rischia di diventare costruttori di chiese/mostri che vivono in funzione del leader di turno, che quando scompare, lascia rimpianti, vuoto e soprattutto chiese che non essendo state amate per sé, ma in funzione di altri, rimangono disorientate e incapaci di riprendersi.
Ringrazio il Signore perché non essendo stato nominato vescovo in giovane età sono stato “esonerato” de facto da tentazioni carrieristiche e, anche per l’educazione ricevuta nei miei anni romani, mi sono dedicato interamente alla crescita della Diocesi che ho amato ed amo ancora.
Come mio padre, sono stato esigente, ma ancora oggi mi brillano gli occhi quando, anche senza di me, sento che la Chiesa per cui ho lavorato, appena riceve gli stimoli giusti del Pastore, continua a costruire il Regno nel territorio alifano-caiatino.
+ don Valentino