“Tiempe belle e ‘na vota… tiempe belle addò state? Vuje nce avite lassate…, ma pecché nun turnate?” (Tempi belli di una volta, tempi belli dove state? Voi ci avete lasciato, ma perché non tornate?).
I versi di questa canzone napoletana piena di rimpianto per un amore giovanile non realizzato, sono citati spesso per esprimere la nostalgia (e l’idealizzazione) del bel tempo che fu, di fronte ai problemi del presente. La cantava spesso mio padre e mi è venuta in mente nell’ultimo Triduo pasquale vissuto da me nell’Arcibasilica Lateranense, a 54 anni di distanza da un’analoga esperienza vissuta da seminarista. Di fronte alla bellezza, alla cura e alla intensa spiritualità che emanava dai riti presieduti da Card. Angelo De Donatis, curati dall’Ufficio liturgico del Vicariato di Roma e seguiti da tanti sacerdoti e fedeli composti e partecipi, mi è capitato di andare col pensiero a tanti anni fa, quando quelle stesse celebrazioni erano riti barocchi e un po’ confusionari, che coinvolgevano soltanto i canonici e i beneficiati della Basilica e noi seminaristi del Seminario Romano, alla presenza di un centinaio di fedeli tenuti a bada dal “mazziere”, un signore (sussiegoso) con una tunica violacea che apriva il corteo liturgico portando sulla spalla destra, un grosso “bastone” alto circa un metro, ornato di borchie metalliche, e, durante i riti, si collocava tra i fedeli (spettatori in piedi) e il Clero, appoggiandosi su di esso.
La lingua liturgica era il latino. I canti erano eseguiti dalla Schola Cantorum della Basilica che stava sulla Cantoria. A presiedere le celebrazioni era l’anziano Card. Benedetto Aloisi-Masella, un fine diplomatico, amico di Papa Pio XII, poi nominato Arciprete della Basilica, che non aveva il dono di essere intonato e che era gestito dal Cerimoniere del Capitolo, Mons. Ruffilli, che ogni tanto scambiava i suoi occhiali con quelli di Sua Eminenza, provocando imbarazzanti interruzioni del rito. C’erano alcuni canonici molto partecipi e attenti, come il nostro Rettore, Mons. Plinio Pascoli, ma altri non davano testimonianza di grande devozione: borbottavano, chiacchieravano…, meritando da noi seminaristi epiteti cattivi come: “il canonico ateo” etc. Tutto sommato, anche loro erano prevalentemente spettatori del rito che veniva gestito da alcuni beneficiati cantorini (ricordo Mons. Ilari) e dai cerimonieri. La gente poi stando in piedi per lungo tempo, naturalmente si stancava scegliendo di entrare ed uscire dalla Basilica per alleggerire il peso di una cerimonia che risultava lenta e poco coinvolgente. Non so come qualcuno sostenga ancora che quelle liturgie aprivano al senso del Mistero…. (infatti, nei tempi passati, quello che portava la gente a credere non erano le liturgie – prevalentemente subite – ma le tante devozioni popolari o iniziative, come le Missioni, che si svolgevano nella lingua corrente e parlavano un linguaggio più accessibile).
Non parliamo di quello che avveniva nelle parrocchie durante il Triduo pasquale (e non solo), soprattutto nelle piccole come quella del mio paese, dove un sacerdote impacciato col latino e con riti complicati, recitava formule e compiva cerimonie complesse alla presenza di fedeli tenuti in chiesa solo dal desiderio di adempiere al precetto pasquale o di donne che non essendo in grado di capire e di partecipare sgranavano rosari e… “ammen”. Durante il mio servizio episcopale ad Alife-Caiazzo di fronte a liturgie curate e partecipate anche in piccole parrocchie di montagna, riandavo col pensiero alle Messe tristi in latino cui mi portava mio padre da bambino, e ringraziavo Dio dei progressi compiuti dalla Chiesa dopo il Concilio ecumenico Vaticano II.
Tiempe belle e ‘na vota? Nella liturgia direi proprio di no.
Pensavo però che in passato, nei giorni di Pasqua, le chiese e soprattutto i riti di devozione popolare, erano il centro della vita dei nostri paesi e delle nostre città, mentre ora per tanta gente quelli del Triduo pasquale sono giorni come altri. Ma vivendo la bellezza dei riti della Settimana Santa nella Basilica Lateranense, ho pensato che il Signore ci chiama a rinnovare le nostre liturgie perché possano parlare del mistero di amore della Pasqua agli uomini e alle donne che nel tempo si avvicineranno alla fede. Il nostro, perciò, è faticoso tempo di semina e di conversione che ci deve impegnare e coinvolgere perché i riti e la nostra vita possano parlare della gioia del Vangelo a quanti sono in cerca del senso vero dell’esistenza. Andiamo avanti perciò, senza scoraggiarci, affidandoci come Gesù al Padre, sicuri che Egli veglia sempre sulla storia degli uomini, anche in questo tempo.
+ don Valentino