L’individualismo, cioè la tendenza a pensare soltanto a sé stessi con l’illusione di essere autosufficienti, di navigare nella vita su barche differenti e di pensare che se gli altri affondano, qualcuno non naufragherà mai, è un virus potentissimo che ci fa dimenticare l’evidenza: siamo tutti nella stessa barca, siamo tutti fratelli, come ci ricorda la recente Enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco.
Anche la Chiesa che è nel mondo soltanto per costruire la famiglia dei figli di Dio, soffre del sottile contagio di tale virus, capace di trasformare in gesti ed eventi individualistici, persino i Sacramenti, incontri speciali col Signore istituiti per farci diventare Famiglia di Dio (Battesimo), confermare questa scelta di vita (Cresima), trasformarci in dono e pane per la vita dei fratelli sull’esempio di Gesù (Eucaristia), farci ridiventare fratelli quando ci siamo illusi di poter fare da soli o di costruire i nostri successi sulla sofferenza altrui (Penitenza), sentirci circondati dell’amore del Padre celeste e dei fratelli nella solitudine della sofferenza (Unzione degli Infermi), donare la vita per essere costruttori della Famiglia di Dio (Ordine sacro), diventare testimoni dell’amore fecondo della Trinità a servizio della Famiglia umana (Matrimonio). È proprio brutto sentir parlare dei Sacramenti come se riguardassero la crescita degli individui, a prescindere dal rapporto con la Comunità.
In questa logica, durante i miei anni di episcopato, ho insistito molto nel sollecitare i sacerdoti, che per vocazione sono costruttori di comunità, a fare il “gioco di squadra”. Eppure, anche tra di loro il sottile morbo dell’individualismo portava taluni a “ballare da soli”, svilendo la propria missione e, talora, dando cattivo esempio.
Ogni aggregato umano in cui l’io prevale sul noi, genera conflitti e va verso il disfacimento: penso alle famiglie, alle amicizie, alle associazioni, ai luoghi di lavoro, ai governi delle Nazioni… Ma la Chiesa, che è per definizione la “patria del Noi”, perché è l’immagine di Dio-Trinità nel mondo, quando non opera in questa direzione diventa insignificante e persino dannosa, assumendo l’aspetto orribile di una realtà ipocrita e fallita, che tradisce la propria missione. Come ho ricordato, la “squadra-Chiesa” si costruisce con i Sacramenti e innanzitutto intorno all’Eucarestia. Per tale motivo, è di fondamentale importanza la partecipazione alla Messa festiva. È senza senso l’atteggiamento delle persone che si definiscono “cristiani che non vanno in Chiesa” (che è come dire: “bambini che non hanno bisogno della madre per crescere”). Ma noi sacerdoti, più che colpevolizzare i fedeli (come facciamo spesso), dovremmo domandarci che idea di celebrazione eucaristica facciamo passare. Dalla gente comune, infatti, la Messa festiva è vista come un obbligo, un “precetto”, una tassa da pagare alla Divinità per sé o per i morti, un rito che tanti individui frequentano per “sistemare” le loro cose con Dio… Non un momento di famiglia in cui ci si incontra, ci si confronta insieme con la Parola di Dio, si condivide la preghiera e la speranza, si alimenta la voglia di diventare pane per la vita degli altri…, un momento bello, costruito dalla partecipazione attiva di tutti per diventare NOI, umanità di fratelli.
Questa costruzione settimanale del NOI è compito di tutti i cristiani, ma nel rito un ruolo importante lo svolge il sacerdote, non soltanto perché rende presente il Signore nell’Eucarestia, ma soprattutto perché con l’omelia educa i fedeli a capire il valore di quel Sacramento che ci libera dall’illusione dell’individualismo e ci fa diventare NOI. A tal proposito, commette un gravissimo peccato un sacerdote che non prepara l’omelia o che dimentica che scopo dell’omelia non è quello di incantare “spettatori” con trovate di vario genere, ma di formare cristiani alla logica del Vangelo. Come è veramente squallido sentire alcuni fedeli che vanno a Messa perché c’è il “don X o il don Y”, e non per incontrare il Signore e diventare un unico pane con i fratelli. Posso capire che un prete che parla bene attira di più, ma compie la propria missione soltanto quando porta i propri ascoltatori non a legarsi a lui, ma a Gesù Cristo. È stato molto triste, da Vescovo, vedere fedeli che accoglievano il trasferimento del parroco come una sciagura perché si erano legati morbosamente alla sua persona.
Se la Chiesa è tale perché vive lo spirito di squadra ed è finalizzata ad essere la medicina che guarisce dall’individualismo per la costruzione del NOI, il distanziamento che ci impone il Covid, da cristiani, va vissuto come un fatto innaturale, ma che ha il pregio di ricordarci che essere Chiesa significa soprattutto incontrarci e condividere il Vangelo e il Pane per diventare fratelli.
+ don Valentino