Se ne parla molto in questi tempi di covid, indicando come esempi di creatività pastorale alcune iniziative prevalentemente legate all’uso dello streaming per le celebrazioni liturgiche o trovate estemporanee di alcuni parroci per diffondere consuete pratiche devozionali, per attuare forme di personale protagonismo mediatico o per suscitare la curiosità della gente. Salvo rare e preziose eccezioni, si ha l’impressione che tutto si fermi qui. A conferma, il fatto che, cessato il lockdown, le nostre parrocchie si sono trovate più povere di prima e, raramente, con il tornare della relativa “normalità”, hanno rivelato una esplosione di zelo originato dalla convinzione che anche nella pastorale “nulla potrà rimanere come prima”. Invece, fatte salve le disposizioni dettate dalla autorità pubbliche, si ha l’impressione che la vita religiosa dei cattolici italiani abbia ripreso il solito ritmo, senza alcun colpo d’ala, spesso con la sola nostalgia di “tornare come prima”. Per fortuna, c’è un settore che esula da queste impressioni: è quello delle Caritas, dove si è assistito ad autentici miracoli di generosità, di creatività e di attenzione ai poveri.
Per il resto, pare che il covid sia stato letto dai credenti più come un incidente che come un “segno dei tempi” da cogliere ed interpretare, più con la preoccupazione di adeguarsi alle norme igienico/sanitarie che come possibilità di rilancio della vita ecclesiale. Infatti la creatività pastorale o come diceva Papa Paolo VI, il “coraggio di osare nella pastorale” non è legata né a paure né a tecniche nuove, ma ad un profondo mutamento interiore, innanzitutto nel cuore dei pastori.
Pensiamo che essa sia determinata da due o tre fattori fondamentali: innanzitutto la capacità del sacerdote in cura d’anime di leggere la realtà con sguardo di amore e, come disse un mio amico vescovo, di farsi “alunno” delle persone che vuole evangelizzare. Questo comporta l’impregnarsi dell’”odore delle pecore” (secondo la forte espressione di Papa Francesco) e l’andare verso le persone (fisicamente e interiormente), prendendo parte alle loro vicende, interessandosi ai loro problemi, alle attese e alle speranze. Sotto la spinta di tale “incarnazione” nella storia, sarà possibile ricercare occasioni per suscitare un nuovo rapporto con Dio, l’amore alla Parola ed educare ad una preghiera meno formale, superando il dilagare di stanche abitudini rituali legate prevalentemente al ricordo dei defunti. Tale svolta pastorale non potrà sottrarsi ad un maggior coinvolgimento dei laici nella vita delle comunità e l’avvio di un “lavoro di squadra”, capace di superare l’antico e mai debellato virus del clericalismo, che continua a privare i credenti della gioia della fede. In proposito, quale nuovo ritmo abbiamo imposto ai consigli pastorali? Quale periodicità agli incontri con i destinatari delle proposte pastorali o con coloro che regolarmente ci avevano affiancati nella programmazione della vita pastorale parrocchiale?
Il secondo fattore è legato al tasso di “passione per il Vangelo” del pastore, che dona sempre motivazioni forti al suo ministero e lo vaccina da quel terribile virus burocratico, che svilisce il volto bello del ministero sacerdotale.
Prima di questi due fattori, c’è però l’attitudine, molto presente nella vita di Gesù, a confrontarsi abitualmente e lungamente con il Signore prima di ogni agire pastorale, per garantirsi che tutto avvenga in sintonia con Lui ed a partire da Lui, che è il principale agente della Missione (non lo dobbiamo mai dimenticare). Temo che molta ripetitività pastorale dipenda dalla mancanza di preghiera, senza la quale, come diceva Madre Teresa di Calcutta: “Si è troppo poveri per dare qualcosa agli altri” e – aggiungiamo – si è troppo cinici per sognare e progettare. A tal proposito, mi viene un dubbio: non è che i Rosari e le meditazioni della scorsa primavera fossero solo funzionali a scacciare il virus alla maniera di un qualunque rito magico? È necessario invece tornare a far sapere che sacerdoti e fedeli – magari in comunione spirituale – non hanno distolto gli occhi dalla Parola di Dio…
Allora, la vicenda tragica del Covid, lungi dal far “beare” taluni pastori per il successo di qualche trovata tecnologica (o teatrale), deve essere colta come un’occasione di verifica e di rinnovata fedeltà al Vangelo, come pure di reale interesse pastorale per la gente e la sua crescita in umanità. Solo così la tecnologia potrà essere utile alla pastorale e far trovare nuove vie di evangelizzazione. In particolare, il tempo del covid va colto da ogni sacerdote come momento di grazia, che lo porta a interrogarsi sulla qualità del proprio essere pastore, a partire dalle motivazioni profonde che stanno alla base della “gestione” delle parrocchie e della propria capacità di appassionarsi al Vangelo ed ai fratelli.
Ogni prete presenta Gesù Crocifisso e Salvatore, ma forse dovrebbe ricordare più spesso a sé e ai fedeli che dietro quell’immagine drammatica e quella vicenda c’è la promessa di resurrezione perché essa rivela l’appassionarsi del Figlio alla causa del Regno e la sua volontà di donarsi fino in fondo per sconfiggere le zone d’ombra che avviliscono il miracolo della vita e di far fiorire la storia degli uomini.
+ don Valentino
Commenti
È perfettamente vero perché molte persone durante il lock down hanno ritenuto le celebrazioni in streaming come un passatempo. Infatti alla ripresa della normale attività pastorale si è notato la non partecipazione sia alle celebrazioni che in altre attività pastorali. Credo che finché non si pone al centro della pastorale Gesù Eucaristico essa resti sterile, solo uno spettacolo o passatempo. Grazie Eccellenza per questa bella e reale riflessione.