In questi giorni di pandemia ho riletto il bel volume di P. Théodule Rey-Mermet, C.SS.R.: Il Santo del secolo dei Lumi, una nota biografia di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che fu Vescovo di Sant’Agata de’ Goti, la diocesi in cui sono nato e sono diventato cristiano.
Mi è servito anche per fare un salutare esame di coscienza sui miei anni di episcopato, confrontandomi con un modello concreto e “alto” di Pastore. Scorrendo le pagine sul suo ministero episcopale, emerge prepotentemente che, dal momento in cui è nominato vescovo, tutta la sua vita è per la sua Chiesa: in pochissimi casi vi si allontana, ma ogni volta non vede l’ora di tornare in sede. Quando le condizioni di salute lo costringono a rimanere ad Arienzo inonda i parroci di lettere con preziose e precise indicazioni pastorali, segno della sua premura costante. Il suo amore non ha confini: per difendere la Chiesa universale, oggetto di feroci attacchi da parte della politica e della cultura del tempo, benché malato e oberato di lavoro, scrive le sue opere di pastore e di grande moralista, senza mai vantarsi.
“I buoni sacerdoti sono il braccio del vescovo” aveva annotato nelle sue Riflessioni (Il Santo….cit. p. 659) e da vescovo si prende cura dei suoi numerosi preti che sono docili, ma lasciano a desiderare quanto a costumi e soprattutto a scienza teologica e morale. Senza fare particolarità, si occupa della loro salute materiale e spirituale, preoccupandosi di invitare buoni predicatori e buoni confessori. È giusto e amabile, ma diventa duro ed esigente quando scorge forme di pigrizia e di mondanità: è un pastore che “scomoda”, non lascia “tranquilli” i suoi sacerdoti: non tollera i mediocri. Già nella prima lettera al Clero diocesano denuncia tre abusi “insopportabili”: le messe abborracciate, le “raccomandazioni” e la predicazione sciatta e pedante (Ibidem p. 659). Sono rimasto sempre molto colpito dai toni usati da San’Alfonso in una lettera del 1764 ai sacerdoti di Frasso (che al tempo erano una cinquantina per circa 2000 fedeli!), che richiamava ad una vita spirituale più coerente e a spendersi maggiormente per le anime, stigmatizzando con forza certe leggerezze e certi abusi correnti (V. Di Cerbo, “Il Clero frassese nel 1764” in Moifà 8, p. 10).
Sin dai primi giorni dal sui ingresso in Diocesi, dà precise indicazioni pastorali: chiede ai parroci di organizzare periodicamente le Missioni popolari e nell’occasione li stimola con insistenza, perché nulla sia lasciato alla improvvisazione (in preparazione ad una Missione scrive in un giorno al Parroco di Frasso ben 4 lettere!). Indice subito la Visita Pastorale, decidendo di svolgerla ogni due anni, anche se riuscirà a realizzare il suo proposito solo due volte perché nel 1766 la malattia lo costringerà a rimanere fermo ad Arienzo fino alla fine del suo episcopato (1775). Visita la diocesi a dorso d’asino (impavido di fronte alle ironie dei benpensanti), soprattutto dopo che un incidente rende inservibile la sua modesta carrozza (Ib. p.682). In tali occasioni dedica gran parte del suo tempo ai Sacerdoti, soprattutto predicando esercizi spirituali e occupandosi della loro vita interiore… (“La principale mira delle Visite ha da essere la riforma de’ parochi”, scrive, p. 684), ma per lui la Visita è una preziosa occasione soprattutto per ripristinare la vita religiosa e morale del popolo. Preoccupato della formazione umana e cristiana delle persone, invita i parroci ad avviare regolari iniziative formative, esortandoli a domandare la collaborazione di sacerdoti di grande zelo e di sicura dottrina. Al suo Clero chiede di “non toscaneggiare”, per ottenere l’ammirazione dei (pochi) colti, ma di parlare la lingua della gente per farsi capire: “Io non voglio, ripeteva, che si predichi con termini toscani, ma voglio che li figli miei, e specialmente la gente rozza ed ignorante, sentano e capiscano la Parola di Dio!” (Ib. p. 664). Sull’argomento tiene riunioni periodiche con il Clero. Ha a cuore soprattutto i poveri e le masse ignoranti e sfruttate delle campagne. Riceve tutti: “Non aveva Egli portiera, né anticamera per chiunque ordinato aveva , ed incaricato ai suoi, che subito qualsiasi persona introdotta si fosse, ancorché miserabile” (Ib. p. 653). A chi gli suggerisce di ridurre le udienze per non stancarsi, risponde che ricevere la gente è uno dei doveri principali del vescovo, al pari della preghiera, della predicazione, del servizio liturgico e della cura dei beni della diocesi. Sente fortemente di dover rispondere a Dio della salvezza delle anime a lui affidate, fino a presentare insistentemente le dimissioni, quando le condizioni di salute non gli consentono di adempiere alla missione affidatagli dal Signore.
Pur provenendo da una famiglia napoletana importante ed essendo molto apprezzato dalla Corte e dagli uomini di cultura del suo tempo, si infastidisce quando qualcuno sottolinea il suo ruolo ecclesiale e sociale e non ama la frequentazione dei potenti, cui si rivolge (e talora incontra) solo per reclamare i diritti dei poveri o della Chiesa, sempre con rispetto, ma senza compromessi. Mons. de’ Liguori non cerca privilegi e veste modestamente, fino ad essere preso in giro dai napoletani nel suo (unico) viaggio nella Capitale. Conferisce incarichi per merito e per il bene dei fedeli e diventa inflessibile quando qualcuno osa farsi raccomandare da qualche potente. Su un certo sac. Amore, di Frasso, che pure egli stimava ed aveva deciso di promuovere ad un incarico, cambiò immediatamente parere, perché questi aveva osato presentargli una lettera di raccomandazione del potentissimo Duca Carafa di Maddaloni: “Indignus, quia petisti” “Sei indegno perché hai chiesto”, sentenziò, congedandolo freddamente. A motivo della sua grande fede e della sua dirittura morale, che lo portavano a mettere al primo posto la salvezza delle anime e il bene della Chiesa, ebbe molti problemi con alcuni Sacerdoti (tra cui il Parroco di Frasso, inizialmente molto apprezzato), che presentarono contro di lui numerosi ricorsi alla Camera Regia, e con alcune popolazioni, che cercava di portare ad una fede più autentica, reprimendo abusi inveterati, scandali e devozioni superficiali, come quando, costatando la venerazione esagerata nei confronti di immagini sacre malridotte e tarlate, ordinò di bruciarle e di sostituirle con altre più adeguate. Anche la Madonna di Campanile cadde sotto questo decreto suscitando la ribellione dei Frassesi che non si arresero neanche quando il Vescovo ordinò al suo amico, il pittore Paolo Di Majo, una bellissima tela sostitutiva.
Sant’Alfonso è un vescovo coraggioso, capace di rischiare e di prendere anche decisioni azzardate: durante la grande carestia del 1763 impegna il patrimonio della diocesi per sfamare la gente, non disdegnando di vendere anche le suppellettili sacre ( Ib. p. 675, 677). Pur essendo severo ed esigente con i preti e i seminaristi, è un pastore capace di incoraggiare e dare fiducia, talora esponendosi a cocenti delusioni. Nel 1772, scrive ad un suo amico nominato vescovo di Gaeta, Mons. Carlo Pergamo, di “tenere gli occhi dieci volte aperti” nell’ammissione agli Ordini sacri perché “certi seminaristi fanno le gatte morte, e quando escono ordinati, fanno mala riuscita….” (Ib. p.697). E dopo aver esposto alcuni saggi consigli, aggiunge che alla fine occorre “sperienza”, ma ammette che anche a lui “nonostante la sua lunga esperienza” qualcuno gliel’ha fatta sotto al naso.
Sant’Alfonso vescovo non è molto interessato a far conoscere a chi sta in alto le sue iniziative, né ambisce ad emergere sugli altri, ma gode quando i suoi confratelli o i suoi collaboratori crescono ed esprimono il meglio di sé, anche se non ama, perché li considera dannosi alla causa del Regno, i vanitosi e “i salvatori della patria”, ritenendo molto importante per annunciare il Vangelo l’umiltà, la generosità e la capacità di collaborare con gli altri, testimoniando l’amore per i fratelli e non per sé stessi.
Mi ha fatto bene rivisitare la storia dell’episcopato di Sant’Alfonso, che fu veramente un grande vescovo, capace di lasciare un’impronta duratura nella fede della gente, come ho avuto modo di costatare sin da bambino già nella mia piccola parrocchia. Certo è che man mano la lettura procedeva e mi confrontavo con questo gigante mi sentivo sempre più piccolo…
Tuttavia da questa esperienza mi è rifiorito nel cuore un grande amore per i miei confratelli Vescovi e il desiderio di pregare per loro e per la loro missione, nella convinzione che un vescovo santo è la fortuna di una Chiesa.
+ don Valentino