C’è tutta una ricca letteratura sull’argomento, un favoleggiare continuo che estende qualche caso limite all’intera categoria… o fa passare i sacerdoti come avventori privilegiati di chissà quale Banca del Vaticano! In effetti, il prete è uno che ha scelto di “faticare a perdere” come mi disse mio nonno una mattina che una signora mi portò 10 uova al posto della offerta stabilita per la Messa, facendomi notare che avevo perso più di 500 lire… E questa condizione del “faticare a perdere” permane anche dopo che con l’8 per mille viene garantito a ciascun prete, che svolge un ministero pastorale, un assegno mensile intorno ai mille euro, che gli permette una vita dignitosa, ma non tale da poter scialare.
Le nuove norme emanate dalla CEI dopo il Concordato del 1984, inoltre, stabiliscono che tutte le offerte che i fedeli versano per i Sacramenti vanno alla Parrocchia e non al sacerdote e che se questi percepisce più intenzioni in occasione della celebrazione della Messa così detta “comunitaria”, comunque trattiene per sé una sola offerta, mentre il di più va alla Cassa parrocchiale. Quindi, economicamente parlando, non conviene fare il prete e penso non convenga neppure avere beni di famiglia o prebende derivanti da altre attività, che lo distoglierebbero dal dedicarsi liberamente, totalmente e appassionatamente al ministero e non lo farebbero sentire una persona pienamente realizzata. Tuttavia, come in altre scelte di vita, quando si perde quota e si vola basso, anche qui il denaro può costituire una tentazione …, ma a costo della sua libertà e della gioia della propria vocazione. Al riguardo, alcuni preti presi da abiti firmati, automobili di cilindrata superiore alla “utilitaria”, ultimi ritrovati della tecnologia, profumi… suscitano in me la decadente malinconia della canzone “Balocchi e profumi (1928) di E. A. Mario…
Mi raccontò un giorno un vecchio sacerdote che in gioventù ad una persona che chiedeva di celebrare la Messa per i propri defunti in un certo modo, oppose le regole stabilite dal Vescovo secondo i dettami del Concilio e non la accontentò. Ma quella persona non gli fece celebrare più la Messa per i propri defunti, facendogli perdere la relativa prebenda, che pare fosse cospicua. Concludeva il sacerdote: “Da allora ho cercato sempre di accontentare la gente!” (alla faccia dell’ obbedienza e della fede!). La paura di perdere le offerte gli aveva fatto dimenticare la sua identità di educatore ed evangelizzatore!
Per il prete la povertà è libertà, possibilità di non essere ricattato, di guardare sempre in Alto, oltre i condizionamenti, di svolgere coerentemente la propria missione. Perché quando il denaro diventa per lui un interesse forte, rischia di fare tutto in funzione di quello, di dimenticare la grandezza della sua missione, il dovere di educare e di annunciare il Vangelo e la capacità di vedere il volto dei poveri e la presenza di Gesù in loro. In una parola, diventa un mestierante da compatire. Un prete povero, invece, è sentito dalla gente come uno di famiglia, da sostenere ed aiutare: mi è capitato spesso di rimanere stupito di fronte alla generosità della gente verso alcuni sacerdoti distaccati dal denaro, soprattutto quando diventano anziani o sono malati.
Da giovane prete, ho avuto la fortuna di collaborare con un parroco che proponeva a noi viceparroci e collaboratori la cassa comune, nella quale versavamo tutte le nostre entrate (la sua congrua da parroco, lo stipendio di insegnante di Religione….) prendendo piccole cifre che servivano per le spese personali. Nel mio caso, versavo le 80/90.000 lire dello stipendio di insegnante (eravamo negli anni ’70) e ne prendevo, come tutti, 30.000. Come pure, tutti celebravamo, a seconda dei turni, i vari riti o qualche volta binavamo e tutte le offerte ricevute andavano nella cassa parrocchiale, ma alla fine percepivamo mensilmente la stessa offerta: nessuno celebrava per guadagno! Non potete immaginare quanti e quali vantaggi derivassero da questa scelta di povertà! Anche le discussioni tra noi avevano un tono alto, mai condizionate da meschini interessi, da invidie, furbizie e gelosie. Si respirava un bel clima di famiglia e di corresponsabilità. Eravamo percepiti come preti che dedicavamo tutta la vita alla Comunità. La gente ci voleva bene anche per questo.
Un giorno mi capitò un episodio che mi fece capire quanto la povertà e il distacco dai soldi fossero determinanti per svolgere la missione cui il Signore mi chiamava. Ancora da viceparroco di San Luca in Roma, fui chiamato una mattina all’alba a portare i Sacramenti ad un moribondo. Andavo un po’ di fretta perché dovevo essere a scuola alle 8.30. Mi aprì la porta di casa un signore distinto, che poi capii essere il fratello dell’uomo in fin di vita, ma che non si fermò con me a pregare. Lo ritrovai all’uscita. Mi chiese quanto doveva pagare per il servizio. Un po’ infastidito gli risposi: “Nulla!”. Salutai e andai a scuola. Qualche giorno dopo, capitò proprio a me di celebrare il funerale della persona cui avevo dato i Sacramenti. Fu una celebrazione dignitosa, con un’omelia che mi riuscì bene (mi sembrò)… Salutai i parenti al termine del Rito, ma il fratello del defunto venne in Sagrestia a chiedermi quanto doveva pagare. Risposi: “Nulla. Se vuole fare un’offerta ci sono le cassette in Chiesa”. Se ne andò poco convinto. Per pura combinazione mi trovai ancora io a celebrare la Messa del Settimo, al termine della quale la stessa domanda da parte del fratello del defunto e la stessa mia risposta. Ma questa volta il mio interlocutore aggiunse: “Guardi che possiamo pagare!” Risposi che i Sacramenti si celebrano gratis e che in simili occasioni la Parrocchia accoglieva solo offerte libere e anonime, senza nessuna tariffa. Chiese di parlarmi in privato. Mi disse, a proposito della mia precedente risposta: “Lei è un prete strano!”. Risposi che ero normalissimo e che noi preti della Parrocchia ci comportavamo tutti in quel modo. Si commosse e mi disse che erano 40 anni che non metteva piede in Chiesa, da quando un prete aveva preteso dalla sua famiglia i soldi per il funerale della mamma morta dopo una lunga malattia lasciando tanti figli piccoli e un marito dissanguato dalle spese che aveva dovuto sostenere per curarla. Lo abbracciai e ci salutammo. Non l’ho visto più, ma questo episodio ha lasciato una traccia profonda nella mia vita di prete. Ogni tanto mi capita di pregare per quella persona, tramite la quale il Signore mi ha fatto capire quale deve essere il rapporto del prete con i soldi.
Talvolta mi è capitato di sentire di ricche eredità lasciate da qualche prete defunto ai familiari! Che pena! Quanti sorrisi avrebbe potuto suscitare in tanti poveri quella disponibilità di denaro; quante persone avrebbe potuto aiutare ad alzare la testa, quanti ragazzi a realizzare i loro sogni, annunciando con la sua generosità che il Regno dei Cieli è vicino! Ho celebrato il funerale di diversi sacerdoti: che gioia è stata per me poter ricordare che è morto povero perché ha dato tutto, come Gesù! Che bello quando un prete fa testamento delle poche risorse personali in favore della Chiesa, dimostrando che quella è la sua famiglia e che è vissuto solo per lei. Normalmente i preti non sono ricchi, le entrate di cui possono disporre non lo permettono. Questo mi ha fatto capire che la povertà è un dono del cuore, perché per un prete attaccarsi ai soldi è fare l’errore e la figuraccia di Esaù che perse la primogenitura per un piatto di lenticchie.
+ don Valentino