La storia dell’umanità va avanti e, nel mondo contemporaneo, con “profondi e rapidi mutamenti”, come ci ricorda il Concilio Vaticano II (GS 4). Nessuno può fermarla. Alcuni movimenti di pensiero e talune forze politiche ci hanno provato, ma alla fine hanno sempre fallito, nonostante i consensi del momento.
La Chiesa nella sua lunga storia, che l’ha resa esperta in umanità, si è spesso dovuta confrontare con fatti ed eventi nuovi e inattesi, scegliendo di rispondere alle sfide del tempo con lo stile dell’incarnazione. Cioè si è calata dentro i mutamenti storici per fecondarli e purificarli, cercando di “raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza” (EN 19), contribuendo così alla nascita di nuovi umanesimi. Quando si è contrapposta al nuovo – per paura, per deficit di speranza, per pigrizia – è rimasta isolata e ha lasciato che la storia e il pensiero umano andassero verso il loro destino, orfani della ricchezza del Vangelo. Con tutti i danni conseguenti.
Questi pensieri mi sono tornati in mente durante un recente incontro in cui si è parlato della “teoria del genere (gender)” e di iniziative del Governo per la scuola italiana. Ho notato che i sentimenti prevalenti erano di allarme e di preoccupazione e che, nel desiderio di contrastare il diffondersi di tale teoria tra i giovani, si faceva riferimento quasi unicamente alle possibilità di bloccare le cose partendo dall’alto, dalla speranza di convincere i poteri politici a desistere da tali iniziative.
Mi sono fatte alcune domande: ma la Chiesa non è maestra? Non ha luoghi dove esercitare la sua funzione docente, dove dare ragione della speranza che è in lei? Ma a chi tocca formare le coscienze e, più semplicemente, i cristiani? Sovente si scarica soltanto su altri: famiglie, scuola, media… la secolarizzazione della società. Ma perché non ci si interroga sulla capacità formativa delle nostre parrocchie, dei nostri oratori, delle nostre omelie, dei nostri catechisti, dei nostri docenti di religione cattolica, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali…?
E che dire di una catechesi che si avvale di catechismi di quaranta anni fa?
E ho pensato: che strano! Alcune comunità dichiarano conclusa l’iniziazione cristiana a 12, o peggio ancora a 9 anni, abbandonando di fatto i ragazzi nell’adolescenza, nell’età delle scelte e poi si rivolgono a Cesare per contrastare teorie difformi o nuove rispetto all’antropologia cristiana? E che dire delle disattese possibilità di confrontarsi e di stimolare i genitori, in occasione della domanda dei Sacramenti, ad una riflessione nuova sulla genitorialità e sul modello di persona umana cui vogliono formare i loro figli? O della debole qualità dei percorsi formativi offerta in occasione della preparazione dei giovani adulti alla Confermazione?
O di certi itinerari catechistici in vista del matrimonio, in cui sovente si glissa sul tema della scelta di Gesù Cristo o su aspetti importanti dell’antropologia cristiana, come ad esempio la sessualità, evidenziando incapacità e pigrizia ad affrontare in modo aperto, serio e documentato certi temi, privando della luce del Vangelo un aspetto così importante della vita?
Come pastori e cristiani adulti ci dovremmo ricordare più spesso che Gesù ha affidato il Vangelo non ai poteri del suo tempo, ma a dodici persone normali che ha contagiato con la sua passione per il Regno ed ha irrobustito con la forza dello Spirito Santo. A questo tipo di persone, cioè a noi, anche oggi è affidata l’evangelizzazione del mondo, cioè il compito di testimoniare agli uomini e alle donne del nostro tempo che esiste una straordinaria possibilità di vivere in grande la nostra avventura umana: il Vangelo di Gesù Cristo. Non perdendo di vista, altresì, che a convertire a tale prospettiva serve più la “puzza delle pecore”, che il profumo degli incensi, il ripetersi di riti vuoti e l’esibizione di sacre palandrane. Tale prospettiva invita quanti sono chiamati oggi ad annunciare la gioia del Vangelo a lasciare i segni di potere e a tornare ad essere profeti, perché, come recentemente ricordava Papa Francesco: «Un sacerdote (e un cristiano) che non è profeta non serve. La profezia è una istituzione della Chiesa»; perché un Vangelo annunciato dalle cattedre dorate e da posizioni di privilegio non converte, non cambia; perché l’annuncio e la testimonianza della vicinanza e della possibilità del Regno di Dio si recano ai nostri fratelli non ricattandoli con il potere dello sciamano, gestore del sacro, ma mostrando gioiosamente che la propria vita è cambiata in meglio al seguito di Gesù, e proponendo loro – in debolezza – di fare lo stesso cammino per essere felici.
Da Clarus, Maggio n.5-2015