Nei giorni 10-13 novembre (2014), i Vescovi italiani hanno celebrato ad Assisi la loro sessantasettesima Assemblea generale, per riflettere sulla vita e la formazione dei presbiteri e riproporre, secondo le indicazioni di Papa Francesco, una figura di prete più adeguata al nostro tempo e più attrezzata per la nuova evangelizzazione.
Punto di partenza di tale riflessione è stata l’affermazione che il sacerdote non è una persona chiamata a svolgere un ministero solitario, ma a realizzare la propria missione a partire dalla comunione ecclesiale. Infatti, in virtù del Sacramento dell’Ordine sacro, egli è inserito in una “squadra”, in una famiglia, cioè nel presbiterio, dove ci sono il Vescovo – principio di unità della diocesi – e i Confratelli, con i quali è chiamato a vivere in fraterna collaborazione e a condividere l’ansia per il Vangelo. Per tale motivo, ogni prete, durante il rito dell’Ordinazione, fa al Vescovo solenne promessa di obbedienza, che non è sottomissione al potere di un altro uomo, ma totale disponibilità a unirsi ai Confratelli e al Pastore della Diocesi per annunciare e testimoniare insieme il Vangelo. Pertanto, solo un prete capace di “fare squadra”, risponde pienamente alla sua Vocazione, collabora alla missione della Chiesa e fa crescere il Popolo di Dio nella fede e nella carità. Come a dire: nella grande “partita” dell’annuncio del Vangelo, ciò che porta alla vittoria finale più che l’estro del singolo calciatore, è l’intesa del “collettivo”, che il mister è tenuto a promuovere e a garantire, anche di fronte alle tifoserie scomposte…
La “comunione per la missione”, pertanto, deve essere il primo criterio per valutare l’opera di un Sacerdote. Purtroppo, talvolta – e spesso in buona fede – si corre il rischio di esaltare preti che, anche se dotati di buone qualità, “ballano da soli”, fuori dalla comunione diocesana, ignorando le linee programmatiche della Chiesa locale, esaltando sé stessi a discapito dei Confratelli, senza preoccuparsi di aiutarli, accontentando le richieste della gente senza educarla e incrementando la propria popolarità con iniziative estemporanee ed estranee alle regole della Chiesa.
Con questi comportamenti, che non portano ad una comunione più grande, ma alla divisione e all’isolamento delle comunità, tali sacerdoti nuocciono al Popolo di Dio. Infatti, quale crescita nella fede e nella vita cristiana si promuove, celebrando Sacramenti a buon mercato e – persino in minuscole parrocchie – Messe a volontà, solo per accontentare le richieste della gente, rendendo il Sacrificio di Cristo quasi un omaggio ai defunti, più che un’esperienza di incontro con il Signore, che trasforma la vita? Quale incontro con il Mistero di Dio si realizza, inserendo nei riti – in barba alle direttive del Papa e dei Vescovi – elementi folkloristici ed estemporanei, che snaturano lo spirito della Liturgia? Come si può essere autentici padri nella fede, quando si è preoccupati di apparire soprattutto amiconi e piacevoli convitati? Come ci si può ritenere legittimamente nella fede della Chiesa, quando di fatto si inducono i fedeli a minimizzare il ruolo del Vescovo, a rifiutare i suoi interventi e, invece di scegliere la via maestra del dialogo e attenersi al “gioco di squadra”, persino a tollerare che venga diffamato, attraverso media gestiti da gente senza scrupoli e senza volto?
Quando un prete opera fuori della comunione con il Vescovo e i Confratelli, lega la gente a sé e non alla Chiesa, che sola ci annuncia Colui che dà senso, gioia e salvezza alla vita dell’uomo. A che è servito, allora? È bello invece vedere tante comunità che, pur addolorate per il trasferimento del parroco, sentendosi parte del “collettivo” impegnato nella “partita” del Vangelo, accolgono con fede il nuovo pastore, soltanto perché è ministro di Cristo, e riprendono il proprio cammino, ringraziano il Signore per la ricchezza che ha portato chi è andato via e attendono fiduciosi altri segni di amore di Dio dalla presenza del Sacerdote appena arrivato.
Forse dovremmo ricordare di più che il Vangelo continua a raggiungerci ed a salvare le nostre vite, soprattutto grazie a tanti preti e cristiani che, mettendo Gesù al centro della propria esistenza, non senza sacrifici, si sono preoccupati di “fare squadra” perché la Parola di Dio potesse correre, essere glorificata (cfr. 2Ts 3,1) e continuare a recare speranza al mondo.
Da Clarus, novembre n.10-2014